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Gli accordi di libero scambio ai tempi del protezionismo

Nei giorni in cui il Sud del mondo, storicamente l’area meno sviluppata del globo, prova ad unirsi per creare la prima imponente area di libero scambio del continente africano, l’AfCFTA (African Continental Free Trade Area Agreement), c’è un’altra parte del mondo, il Nord, da sempre paladino del liberalismo economico, che minaccia dazi e muri per porre limiti al commercio globale.
Sembra che i poli si siano invertiti, anche se un ritorno al protezionismo non è auspicabile in un’economia interconnessa come la nostra, in quanto se uno stato decide di chiudere le porte del proprio mercato ottiene come conseguenza quella di disincentivare il resto del mondo a comprare i beni che produce. Maggiore chiusura implica minori consumi, minore produzione, minore domanda e minori investimenti.



Eppure sembra che questi principi siano del tutto ignorati dal presidente americano Donald Trump che, che sfruttando una legge commerciale degli anni Sessanta finora poco utilizzata, ha imposto il 25% di dazi sull’acciaio straniero e del 10% sull’alluminio

A subirne le maggiori conseguenze sarà la Cina: i dazi, infatti, verranno applicati sulle importazioni provenienti dal dragone asiatico su circa 1.300 prodotti per un valore stimato di 60 miliardi di dollari e saranno predisposte anche restrizioni agli investimenti cinesi negli Stati Uniti.
Ovviamente la risposta di Pechino, che considera le misure americane un abuso alle clausole di sicurezza dell'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) non ha tardato ad arrivare: in risposta ai dazi americani la Cina imporrà dazi su 128 prodotti statunitensi, tra cui carne di maiale e frutta, per un valore di 3 miliardi di dollari.
E l’Europa? L’Unione potrà dirsi al sicuro fino al 1° maggio, data fino alla quale ha ottenuto una momentanea esenzione dall’applicazione dei dazi. In realtà, proprio per la temporaneità della sospensione, l’Europa si trova costretta a trattare per ottenere un’esenzione permanente, anche se, come ha sottolineato il premier belga Charles Michel, Trump vuole “negoziare con l’Ue mettendole una pistola alla tempia, e non è un modo leale di negoziare con un partner così solido sul piano storico”.
Ma Donald Trump non indietreggiare di un millimetro e conferma quella che sarà la linea guida della Casa Bianca sul piano internazionale: utilizzare i dazi come strumento di negoziazione. Paventando una guerra, in realtà induce i partner commerciali a riallinearsi agli USA attraverso opportune provocazioni operate su più livelli (moneta, dazi, protezionismo) e imponendo accordi bilaterali che partono da imposizioni asimmetriche. A conferma di ciò, l’esonero permanente dai dazi della Corea del Sud a seguito del rinnovo delle clausole dell'accordo commerciale con gli Stati Uniti il 28 marzo. 

 
Cosa vuole allora Donald Trump in cambio dell'esclusione dell'Unione Europea dalle tariffe sull'acciaio e l'alluminio oltre la scadenza del 1° maggio? Questa domanda ha trovato una possibile risposta nelle parole del rappresentante per il Commercio dell'amministrazione americana Wilbur Ross che, a sorpresa, ha resuscitato l'idea di un accordo commerciale di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea. Trump vuole usare la minaccia dei dazi per fare risorgere il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), accantonato dall’agosto del 2016 dopo il fallimento di 14 round di negoziati. Facendo leva sulle tariffe doganali, gli USA puntano a far abbassare le tariffe europee sulle automobili, ma anche su agricoltura ed energia, nonché incentivare la liberalizzazione degli investimenti.
L’effetto sortito però non è stato quello sperato: Bruxelles si dice pronta a dialogare con gli USA ma non a riaprire le trattative per il rilancio del processo per un partenariato transatlantico su commercio e investimenti. Ciò che finora Washington ha ottenuto è stata solo la divisione delle due principali capitali europee. Parigi e Berlino infatti sono su due rive opposte rispetto alla eventuale guerra commerciale con gli Usa: la prima è pronta a combatterla, la seconda a fare di tutto per evitarla. E su questo fronte l'Italia, seconda potenza europea dell'export nei confronti degli Stati Uniti, è più vicina alla Germania che alla Francia.
Una frattura interna in seno all’Unione Europea è la causa del fallimento dei negoziati per la conclusione anche di un altro importante accordo commerciale, quello con il Mercosur (area di libero scambio che comprende Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), che si trova attualmente in una fase di stallo a causa della mancata intesa su due contingenti agricoli: l’etanolo e la carne bovina (per approfondimenti).

Ciononostante l’Unione Europea continua a considerare gli accordi commerciali come un volano per la crescita economica e, come si legge sul sito del Parlamento Europeo: “stipulare nuovi accordi commerciali significa creare nuove opportunità per le aziende europee e quindi creare nuovi posti di lavoro, ampliare la scelta per i consumatori e abbassare i prezzi”. In questo spirito sono stati recentemente conclusi due accordi con due partner molto importanti: Canada e Giappone.
L’ultimo in ordine di tempo è quello con il Giappone, formalizzato l’8 dicembre 2017 a Bruxelles, che porterà ad un potenziale aumento delle esportazioni Ue verso il Giappone fino a oltre 20 miliardi di euro, di cui 10 solo per i prodotti alimentari. Due infatti gli aspetti chiave dell’accordo: l’apertura del mercato nipponico all’agroalimentare europeo e il completamento dell’apertura del mercato europeo all’industria automobilistica giapponese. In considerazione del peso del settore agroalimentare, l’intesa bilaterale riveste particolare importanza per le imprese italiane. Tra gli interventi previsti figura infatti l’azzeramento dei dazi applicati dal Giappone sulle importazioni di alcolici, pasta e formaggi a pasta dura. Inoltre, Tokyo si è impegnata a riconoscere 205 tra Dop e Igp europee, di cui 44 italiane conquistate da vini, formaggi, frutta e prosciutti.
L’accordo di libero scambio tra UE e Canada, il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) firmato il 30 ottobre 2016 a Bruxelles è entrato provvisoriamente in vigore il 21 settembre 2017 (in attesa di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali). Bruxelles e Ottawa hanno stretto il patto per contribuire a generare crescita e occupazione, incrementando l’export, riducendo i costi di importazione delle materie prime e offrendo ai consumatori una più ampia possibilità di scelta.
È inoltre entrato in vigore a gennaio 2017 l’accordo di libero scambio tra Unione Europea, Perù, Colombia ed Ecuador che ha aperto nuove opportunità di mercato alle principali industrie esportatrici UE, che hanno beneficiato dell’eliminazione dei dazi. Nei primi quattro anni di applicazione dell’accordo le esportazione dell’UE verso il Perù sono aumentate del 3,8%.

Dal 1° luglio 2011 è entrato in vigore l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e la Corea del Sud. Nei cinque anni successivi all'entrata in vigore dell’accordo, sono stati eliminati i dazi, da entrambe le parti, per il 98,7%, il che produce un risparmio annuo di 1,6 miliardi per gli esportatori UE.
Anche con il Medio Oriente ci sono diversi accordi, in particolare con otto paesi, per aumentare i flussi di merci; sul tavolo anche l’espansione di tali intese in altri settori come l’agricoltura e l’industria.
Sono in corso negoziati anche con Malesia, Indonesia, Tailandia, Filippine, Birmania/Myanmar, India, Messico, Cile, Australia e Nuova Zelanda (per la lista completa cliccare qui).
Non ci sono ancora negoziati su accordi di libero scambio con la Cina, ma sono in corso altri tipi di negoziati, come quello per un accordo UE-Cina sugli investimenti.
Nonostante dazi e corse al protezionismo, il libero commercio non è ancora morto.


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